Istinto atavico (Vito Virzi)

Ho ricevuto questo scritto dal figlio di una mia conoscente. Quanto ho letto, mi ha fatto riflettere a lungo ma non voglio influenzarvi. Mi farebbe veramente molto piacere, da parte di chi legge, un parere in merito . Grazie. N. Guaita

I

Anni d’incomprensioni, solitudine, ideali di vita da sempre esistiti che nella nostra epoca per certi versi peculiare risultano folli, incomprensibili o addirittura insensati.

Questo mio scritto è dedicato a coloro che si sono suicidati o fuggiti da casa, a coloro che non hanno potuto sopportare il peso del non sentirsi parte di una società che affermava di volerli ma che poi si è disinteressata di loro, per chi si sente solo e combatte battaglie interiori che nessuno sa dove li condurrà. Uno scritto dedicato a chi soffre rinchiuso nella propria tana perché impaurito e senza speranza, queste parole sono per voi, per dichiarare che uno tra voi ha preso la decisione di venire allo scoperto.

È uno scritto rivolto a chi mi conosce perché capisca una volta per tutte di non averci capito niente, uno scritto per chi non mi conosce e nemmeno lo vorrebbe, perché pensa il mondo si apra e chiuda dinanzi i suoi piedi e per chi non leggerà nemmeno perché teme di trovarsi faccia a faccia con il dolore.

Non ha importanza la lettura che se ne farà, qui sarà descritto il mio ideale e ciò che l’ha cresciuto come fosse un bambino, il mio ideale è una creatura e se nessuno la calcola scenderà in una bara con me, un giorno, come uno tra i tanti orfani che hanno attraversato la storia.

Quel labirinto che è la società per trenta anni mi ha tenuto prigioniero, come un cinghiale scappavo e per tutte le vie che prendessi sempre, ritornavo a lei. Ora la storia è cambiata, o almeno, è in una fase decisiva di cambiamento, esco allo scoperto come un animale dopo un lungo letargo per mostrare le mie idee, il mio ideale, le mie follie nella consapevolezza che non sarò più io a correre dietro al mondo ma che se pure fosse un cane randagio, sarà lui a farlo verso me.

Siamo uomini e donne come ce ne sono state in altre epoche, gente particolare, eccentrica, strana. La nostra differenza è questa epoca che per certi versi è unica e rappresenta perciò contesti sconosciuti dove perdersi è parecchio semplice. Noi, coloro che sembriamo emarginati e raggomitolati nelle nostre tane non siamo che profeti in un tempo che di profeti non sa che farsene, oggetti da museo che per grazia speriamo di tornare a vita nuova. Fuoriusciti dal mondo e rintanati nelle nostre dimore cosa aspettiamo? Io scelgo di espormi, con follie e stranezze, per farmi deridere e ammirare, per incuriosire e lasciarmi detestare.

Il momento è propizio, il vento fischia. Sento il vento con prepotenza soffiare tra gli alberi. Posso sentire il vento? E allora, non c’è che dire, il momento è propizio, il silenzio è costante e l’atmosfera adatta per iniziare a gettare i miei pensieri.

Scriverò alcune righe qui, altre righe lì, al momento sono un girovago che segue il flusso della sua anima in attesa di quell’atmosfera particolare che mi suggerirà dove fermarmi, la modalità con la quale ho proceduto non riflette che il moto tormentato di questa. Se durante le mie parole noterete contesti differenti, luoghi incompatibili con i precedenti non allarmatevi, è il mio modo di procedere, certi pensieri sorgono svolgendo un’attività, altri ne sono sorti in situazioni impensabili. Questo scritto non è che un sunto del mio pensiero sino a oggi elaborato e la descrizione di un ideale che infiamma la coscienza e mi fa bruciare come carta al fuoco quando sono ripieno dei suoi pensieri.

II

Stavo lavorando di zappa come ogni pomeriggio, disboscavo a mano un terreno incolto perché mai utilizzato, pietre, rovi, spazzatura, alberi più morti che vivi, soffocati da una vegetazione che non ha avuto pietà. Ripulivo, rovo per rovo, sradicavo ceppo per ceppo, zappavo, vangavo metro per metro, spostavo massi per dare forma a un luogo considerato inutile da chiunque. Tutto questo dove? In un campo qualsiasi dove mi sbucciavo mani e braccia, dove le spine mi penetravano la pelle, dove a due passi in estate la gente passa per strada ridendo e scherzando, godendo. Per loro sono un essere strano, una macchia d’inchiostro sulla loro bella cartolina. Accadeva tutto questo quando mi accorsi che il silenzio voleva comunicare con me. Vidi l’erba dei campi ondeggiare mestamente e qualche uccello svolazzare più tristemente del solito. Mi chiesi se era una mia impressione dettata dal pessimismo con cui mi approccio alla vita o se quel silenzio aveva davvero di che dirmi. Smisi di lavorare e mi fermai dirimpetto al campo di grano, sì, pensai che quel silenzio era proprio strano. Un silenzio innaturale. Non era il silenzio del bosco o quello di un monte impervio ma quello di una campagna abbandonata, di terra non lavorata. Molte case intorno eppure silenzio, belle case davvero, direi ville, eppure chiuse. Rammentai che era un superfluo mercoledì dal freddo ancora pungente.

Immaginai un animale venirmi incontro e guardarmi incuriosito come a chiedersi che facessi lì mentre tutti erano in città a lavorare e guadagnare soldi per godersi la domenica. Immaginai che me lo chiedesse con insistenza e immaginai pure di dovergli una risposta, e provai imbarazzo.

Io ero semplicemente lì, con la zappa in mano, sudato, come se il tempo fosse fermo a un secolo fa. Allora, quella zappa non sarei stato il solo a impugnarla. Ma per mia disgrazia di secolo eravamo uno avanti ed io non potevo che essere il fantasma di un uomo che davvero doveva aver lavorato così.

Ma questo non era tutto, pensai che quattro giorni e sarebbe arrivata la domenica e prima ancora il sabato, le ville costruite su vecchie case da lavoro avrebbero messo la musica e trattorie e ristoranti richiamato la calca, gli uccelli sarebbero scomparsi e solo il grano avrebbe continuato a ondeggiare mestamente. Anche questo mi risultava molto innaturale, ma mi ero abituato, questa doveva essere proprio un’epoca strana.

Scelsi di approfittare di quella fredda giornata e interrotta d’improvviso ogni attività, m’incamminai

sino un luogo dove iniziava un bosco e dove entrava un poco di sole, su una zona rialzata. Mi fermai, nella speranza che quel posto diventasse più familiare. Fissai lo sguardo su uno di quegli alberi dal fusto particolarmente robusto non avendo idea di che genere si trattasse. Era massiccio e alto, ben radicato al terreno. La corteccia presentava macchie di funghi e muschio, il loro profumo intenso era ben accordato con le sue foglie giallognole tendenti al marrone. Se mi fermavo e chiudevo la mente solo su quell’albero, mi sentivo trasportato in un mondo che avrei detto parallelo. Io avevo un’arma e questa era la fantasia, capii che l’uomo con questo grande potere aveva l’occasione di fare ciò che nella realtà non gli era concesso. Dopo un tempo seduto in costante contemplazione, venne a me naturale rivolgere delle parole all’albero, albero cui non avevo chiesto alcun permesso ma che ospitava pazientemente il mio peso.

Rivolsi a questo splendido esemplare parole che si dicono solo a chi ha un cuore, a chi ha facoltà di intendere. Non c’era istante che non mi sentissi stupido nel pronunciare quelle parole, ma preferii procedere per vedere dove mi avrebbe condotto tale follia.

“Albero, tu stai in questo bosco e da qui non ti muovi. Nel mio cuore, o forse nella mia anima, sento che tu sei saggio, sei vivo. Chissà in questa solitudine e in questo silenzio quanto sei diventato sapiente, chissà quante cose hai visto e quante ne vedrai. Devi essere un amante delle piccole cose, immagino sai apprezzare ogni dettaglio e ogni essere per quello che è. Da qui non ti muovi è vero, ma io sono certo, devi avere imparato un sacco di cose. Pagherei qualsiasi prezzo per provare a essere quello che sei tu, per vedere la vita dalla tua prospettiva. Deve essere interessante essere ignorati e per questo divenire spettatori inediti, per assistere a scene inedite. Che cosa fanno gli animali da queste parti? E gli uomini? Quando passano di qui e nessuno è intorno a loro come si comportano? S’inginocchiano mai per rimanere stupiti di tanta bellezza? Rimarrei qui, al posto tuo, se solo potessi”.

Non ero certo cosciente della forza contenuta nelle mie parole, ma lo feci di cuore e con desiderio reale. Chi mi ascoltò non so e chi si commosse innanzi quelle parole nemmeno.

Dissi tutto questo tenendo gli occhi chiusi, stringendo tra le mani la terra e ringraziando. Durante quelle parole provando a fantasticare sentii il vento sbuffare più forte e provai anch’io a sentire la mia cima che ondeggiava come le tante altre accanto a me. Un brivido mi attraversò il corpo e non distinsi più la realtà dal sogno.

Lì, nel bosco, dove le fiabe divengono realtà, qualcosa di magico avveniva. Era come quando si dorme, dove si è coscienti di sognare, dove ci si vuole svegliare e si crede di poterlo fare ma quando ci si prova, non si può. Mi si accentuò l’udito, diminuì la vista, vedere vedevo, ma come non me lo seppi spiegare.

“Piccolo uomo, sono albero, sono io che ti parlo. È accaduto quello che accade nelle fiabe, tu sei nel mondo delle fiabe. Con la stessa incoscienza con cui vivete la vita nelle vostre città, allo stesso modo hai pronunciato parole cariche di significato di cui non ti sei reso conto. Parole che forse non avresti detto se solo avresti creduto così forti. Le parole hanno un valore, qui non è come da voi.

Sai, tanti passano di qua ma quasi nessuno si ferma. Molti cacciano e uccidono per diletto. Altri ancora vengono urlando e strepitando come se fossero soli. Quello che ti ha affascinato è il silenzio e la solitudine non è vero? Queste rendono magici questi luoghi e tu ora puoi sperimentarlo. Ricorda, se ti lascerai guidare da silenzio e solitudine potrai imparare tanto, prendili come tuoi maestri per questo tempo. Qui, imparerai a non sentirti mai solo, imparerai che anche la più piccola cosa è dotata di vita, te ne accorgerai, soprattutto quando queste cammineranno sulla tua bella corteccia.

Guarda quanti altri alberi hai intorno a te, li hai mai considerati? Ora saranno i tuoi nuovi amici. Gli uomini ci considerano solo quando devono abbatterci per ricavarci nei loro strani traffici, solo perché non ho la bocca per parlare e gli occhi per piangere, questo basta loro per non interrogarmi e chiedermi se sono d’accordo?

Lì, nelle vostre città non si sa quale scempio si compia ogni qual volta scompare un pezzo di bosco, tu ne hai avuto quasi coscienza.

Imparerai a essere ignorato, a essere visto come oggetto, chi staccherà la tua corteccia non ti ringrazierà e chi spezzerà i tuoi rami, lo farà solo per noia.

Oh sì imparerai, ne sono certo, le cose più piccole e gratuite sono quelle più misteriose e speciali. Attenderai il sole nei giorni invernali e non vedrai l’ora di veder sorgere la luna quando calerà la notte. Ascolta il vento, osserva il bosco, odora la terra dopo una pioggia, guarda la luna giocare con il buio.

Vuoi sapere perché noi siamo stati creati incompleti? Ebbene, perché a vicenda ci completiamo. Voi avete un grande cervello, la parola per esprimervi ma noi abbiamo la saggezza. Se voi veniste qua e invece che abbatterci restaste, la vostra intelligenza si unirebbe alla saggezza.

Ricorda, un uomo nel bosco è solo e fragile, l’uomo non è il padrone ma un ospite. Pensa solo a: quanto ti ci sarebbe voluto per camminare nella mia casa senza paura? Per capire che non ti sarebbe successo niente di male?

Cosa ti fa paura uomo? Il nulla? Che tutto è immobile? O l’assenza di rumore? Non ne sei abituato non è vero? E poi, un suono dopo tanto silenzio, che effetto ti fa? E i rami che s’incrinano sotto la forza del vento, che ne dici? Tu uomo hai paura, perché al silenzio associ la morte e al rumore improvviso il pericolo. Sei tu però, che resti appostato in silenzio con il tuo fucile e poi improvviso spari per uccidere, ma alla fine non è il cinghiale ad avere paura di te, ma tu ad averne di lui”.

Dopo un tempo che doveva essermi parso interminabile, mi ritrovai accasciato ai piedi del mio saggio amico, non potevo dire quanto era passato. Quando mi riebbi, era il tramonto. Per la prima volta mi stupii di quella palla incandescente rossa che sembrava scomparire nella terra e risorgere puntuale dalla stessa.

Considerai: che cos’era il tempo? Qual era il profumo del tempo? Era dolce o era amaro?

Il tempo lo avevo sempre considerato sterile meccanismo con conseguenze irreparabili solo per lancette di orologi. Il tempo sapeva della mia esistenza ma io non sapevo dell’esistenza del tempo.

Mutava le cose e gli uomini, uccideva e trasformava, lento.

Forse che il tempo passava? Forse. Il tempo come le stelle cadenti, cadono ma nessuno sa dove.

Il tempo si nasconde innanzi a un uomo troppo impegnato, davanti a chi occupato nei suoi piaceri ignora il sole che tramonta. Ma che fa il tempo davanti a un uomo che parte, che va lontano, che torna e poi riparte?

Le sensazioni e le emozioni sono di un uomo poco attento alle cose che sussistono senza di lui, quelle di un uomo avvezzo ai piaceri, di colui che gode della vita.

Pensai a quando ero andato lontano di casa e c’ero andato certo più volte. Solo alcuni mesi e già il ritorno, già la gioia, già l’emozione nell’immaginare l’incontro con i miei. Ricordai quel treno rallentare percettibilmente e a quando alzando gli occhi da un libro, ero oramai nei pressi della stazione, fuori dal finestrino curve di un paesaggio rimastomi famigliare. Entrava in stazione il treno, dolcemente si fermava, le porte si aprivano ed io scendevo. Quel cercare frenetico nel grigio spiazzo il viso a me tanto famigliare e scorgere con stupore un uomo più smunto, un uomo più basso, un uomo più lento.

Nell’avvicinare la figura che credevo di conoscere fissai lo sguardo su rughe mai viste e su un leggero zoppicare mai notato. Il suo corpo che si dirigeva verso un abbraccio e pure quelle braccia nel loro stringersi che parevano più deboli.

E ai miei rientri a casa? Quel cane compagno degli anni giovanili accorso ogni volta più lento, quel ritardo sempre maggiore fra il suono del campanello e lo scodinzolare. Fino l’ultimo. Il più penoso. Nessuno scodinzolio, nessun uggiolio.

Forse ultimamente il pelo era più bianco, gli occhi meno brillanti, lo sguardo meno vispo?

Poco attento al tempo che consuma e fa sparire il mio amico era considerato della cerchia dei privilegiati, uno di quelli su cui il tempo non ha potere.

E mia madre? Nell’accarezzarmi mostrava anche lei rughe sul viso, la statura più bassa e il corpicino ripiegato su se stesso che pareva troppo gracile per tenersi in piedi da solo.

I capelli tinti da una parrucchiera attenta e che nulla aveva potuto sulla ricrescita grigia che era rifiorita come erba infestante, quei ciuffi grigi mi mostravano una realtà ai più sgradita.

Amante dei libri mi ero anche diretto verso gli ampi scaffali e imbattutomi in un volume vecchio e malconcio, avevo scorto una dedica sbiadita che ricordava che molti anni erano passati, le pagine tendenti al giallo emanavano profumi di un’altra epoca.

E accanto a quei libri le ricordo, conchiglie appartenenti a un mare saccheggiato da bambini troppo curiosi che mostravano tempi che dovettero essere stati allegri, tempi di una allegria mai goduta perché inconsapevole. Conchiglie dai colori non più sgargianti avevano perso il fascino posseduto in fondo al mare e spaccature che sancivano una giovinezza invidiabile, rammentavano sogni infranti e gioie perdute.

L’occhio cadeva su una fotografia, immagine partorita da macchine oramai antiquate che mostravano una giovane donna e un uomo avvenente, due bimbi graziosi e un’atmosfera difficilmente reale.

Reso inattivo da un dolore imprevedibile fui costretto a distogliere lo sguardo ma ovunque mi dirigevo non c’era pace.

Quell’infanzia invidiabile aveva creato uno squarcio nell’anima come se un uomo annoiato avesse strappato senza cura un vecchio giornale. Ricordando soffrivo e soffrendo mi consumavo.

“Non sapeva che quelli che amiamo invecchiano appena noi voltiamo le spalle, ed egli era ancora al punto di desiderare che il tempo passasse più in fretta”. Così citava un vecchio libro dalla copertina sdrucita che ricordavo perfettamente.

Chi era chi voleva uccidere i miei ricordi, frantumare il mio passato? Chi amava distruggere per trasformare e poi creare?

Un temporale passa, una goccia che cade non cade due volte, il latrato di un cane non fa ritorno.

“Ma chi sei tu che uccidi i miei ricordi? Chi sei tu che inghiotti chi amo?”

T’immagino come un uomo grande dal viso astioso, abiti lì, da qualche parte sulle cime di aspri monti, lì dove stanno i nidi d’aquila, là dove si nascondono i camosci.

“Quando ci si avventura per i monti e ci si avvicina alla tua casa tutto appare immobile, allontanati da quei luoghi e tutto scorrerà più veloce, implacabile”.

Lassù, nella riflessione il mondo si ferma, quaggiù nel nostro la vita si prosciuga.

“Accorgersi di te sarebbe come riuscire a scorgere le singole gocce che compongono un ruscello. Troppo tardi ti scopriamo e troppo presto ti riveli”.

I fiori! Quanto sono diversi tra loro i profumi dei fiori. Ebbene, se Dio ha concesso un profumo diverso a ogni singolo fiore, il tempo ha donato un significato diverso a ogni singolo istante.

I miei occhi erano lucidi ma non piansi, mi alzai e feci per uscire dal bosco.

III

Una ferita mi è stata inferta. Ferita invisibile perché lo devo ammettere fisicamente mai nessuno mi ha torto un capello.

Ma cosa crea più dolore? Una ferita carnale o una non visibile? A essere feriti sono il mio animo e la mia mente, un logorio lento che le sta portando entrambe a degenerarsi.

La differenza tra le due? La prima modalità è diretta, violenta, immediata, la seconda è lenta, subdola, è un verme e scava gallerie.

La ferita non visibile non è stata aperta da una lama tagliente ma da vermi che mi hanno roso dall’interno, vermi simili a quelli che dissolvono le carcasse.

Il dolore non è acuto e non lo è mai stato, è crescente, insistente, è come avere un prurito interno e non trovare sollievo grattandosi.

Tutto nasce in età pre-adolescenziale quando con poca convinzione e molta insistenza chiesi per giorni interi quesiti a mio padre della sorta di questo genere: “Papà, che senso ha che devo andare a scuola se poi devo morire? E perché tu lavori se poi devi morire anche tu?”.

La risposta fu pressapoco questa: “Ma che domanda è? Si fa perché bisogna farlo, tutti fanno così”. Per la mia insistenza finii da uno psicologo e forse la mossa azzeccata sarebbe stata condurmi da un filosofo.

In adolescenza presi strade scorrette e a scuola non studiai mai, a che pro fare tanta fatica se non esisteva un senso per il sacrificio?

È la società ad avermi ferito ed è lei che mi sta annientando.

Uscire dalla società è un percorso dalle insidie peculiari.

La società è un grande serpente che avvinghia, un labirinto dove ogni via che s’intraprende ti porta dritta nuovamente a lei. Sono una scimmia, una di quelle rinchiuse nelle gabbie degli zoo e ora che non sono libero ho solo voglia di tornare alla vita dei miei “progenitori”.

Ma società cos’è? Per non essere astratti, società sono quelle consuetudini, quei modi di fare ma soprattutto quello stile di vita che pretende tu sia lì dove vuole lei, e per essere lì devi viverci con il lavoro che lei stessa ti procura. Un guadagnare per uno spendere, nel particolare in quei piaceri che solo lei può concedere così da farsi reputare indispensabile e tu divenirne dipendente.

Ne vuoi uscire? Tutti t’indicano la via per entrarci ma nessuno quella per uscire, la sfida parte allora, quando senza mezzi né strumenti solo per tentativi e fallimenti provi a scardinare il meccanismo che è stato creato per non fallire. Nell’immediato ci sarà una perdita a livello sociale e ragazze, amici, forse anche parenti, ti accompagneranno alla porta dell’oblio ma senza fare un passo oltre staranno a guardare te, che ti avvii dove di vivi ci stanno solo i morti.

Ora sono alle porte della società e interagisco con lei quanto necessito per la sopravvivenza.

Mi sento orfano, solo al mondo ma felice di non essere la massa, di aver scelto la solitudine per andare dove nessuno vorrebbe andare.

In questa società non è l’istinto atavico a prendere il sopravvento ma un istinto diverso.

Molti affermano che dentro di noi abitano due parti, in termini cristiani potremmo definirle del “bene” e del “male”. Sono tra chi sostiene che sia una verità fondata e che sia la nostra volontà, il discernimento, l’esercizio e il libero arbitrio a lasciare che propenda l’una piuttosto che l’altra. Avverto queste due correnti correre dentro di me come torrenti in piena, il male è in me come connaturato, il bene è nascosto, timido, quasi sottomesso, osservatore disinteressato come non fosse direttamente coinvolto. Una battaglia che in me si combatte fin dalla prima adolescenza, e se da quel tempo fino ai ventuno anni ha prevalso, nettamente, il male è da lì in poi che ho cercato di costruire una diga che nonostante gli sforzi ho notato fare acqua da tutte le parti.

Dipenderà dal carattere? Dai fattori genetici? Da inclinazioni particolari? Questo non lo so, quello che so è che il male è in me e che spesso fa capolino proponendomi diavolerie tra le più inquietanti. Non credo che in ogni persona funzioni in questo modo, penso piuttosto che questi due flussi siano più o meno preponderanti in conformità a regole che io ignoro.

La società ha su me questo influsso. Della società sono attirato dalle sue bassezze, dai suoi bassifondi, dalla sozzura, dai piaceri proibiti, sono per me ammalianti tentazioni che richiamano me, cane selvatico con ululati selvaggi provenienti da quei miei simili che da sempre vivono come io lotto per non diventare.

Questa società propone doveri e piaceri e chi è bene integrato, svolge i doveri per poi godere dei piaceri. La differenza tra me e voi, è che io ho solo doveri ma dei vostri piaceri – di quegli ammissibili piaceri – non m’interessa goderne. Non m’interessano, non mi affascinano, non hanno su di me alcuna attrazione, sono un uomo che a queste condizioni dà senza ricevere.

Quel che voglio far capire è che non c’è attività veramente significativa in questa nostra società tale da richiedermi il sacrificio di rimanerci all’interno se non quello di essere mero pezzo meccanico di un meccanismo di cui non capisco il senso.

Come chi trafuga dopo un terremoto, ho però portato via da questa società due cose ed entrambe voglio condividerle con voi.

La prima la definirei “un’insolita amicizia”. I libri sono l’invenzione umana per eccellenza, ciò che l’uomo di più bello non poteva inventare. Non sapevo come dichiarare il mio amore per questi amici così sublimi fino a quando non mi è venuto alla mente di scrivere brevi pensieri per loro.

Non di rado – quando ero più spensierato – mi ero sdraiato sul letto chiudendo gli occhi e rilassando il corpo. Fiacco da una giornata di giochi trovavo ristoro nel mio giaciglio tra le morbide carezze di mia madre, tra queste mi accucciavo lasciandomi coprire con calde coperte. Dalla posizione che tanto amavo, approfittavo della stagione fredda per sperimentarmi in un’attività personalissima. In quegli anni di gioiosa infanzia la mamma era solita raccontarmi fiabe, è allora che imparai cosa significasse aggrapparsi al più piccolo degli appigli per cimentarmi in creazioni che conducevano dove meglio credevo.

Secondo quanto ricordo non mi fermai alle fiabe ma volentieri andai oltre, lasciandomi cullare da un leggero movimento di ramoscelli o dalla pioggia, ero così capace di abbandonare il mio giaciglio per precipitarmi tra baite che adornano i paesi di montagna o su navi che solcano oceani in tempesta. Se il sonno non mi tradiva e non cadevo addormentato fuggivo più lontano, tra dettagli più minuziosi. Queste e tante altre raffigurazioni mi lasciavano sorridente, mi addormentavo così tra le cure di mia madre. Fin dove mi spinsi in quegli anni? Certo non lontano, solo a una baita, a un oceano o poco oltre.

A incalcolabili anni di distanza scovai una predisposizione mai affinata, un marmo grezzo che non fu mai lavorato.

Quando scoprii che c’era più gusto a lasciarsi andare tra le mani di altri che tra le proprie capii che il desiderio di fuga era attuabile. Tutto cambiò quando mi ritrovai con un libro per le mani, quando leggendo mi resi conto che potevo saturarmi fino immergermi in altra dimensione scivolando inspiegabilmente nella Pietroburgo e nella Mosca ottocentesca o nello stanzino sudicio e scuro dove un uomo intesse un monologo.

Scovare l’alternativa a palliativi poco salutari fu sviluppare la capacità maniacale di destreggiarmi armoniosamente tra decine di autori scovando il più indicato per ogni evenienza. Ci sono volte che addento un racconto come chi non mangia da giorni, dove ingurgito le pagine come se prendessi una medicina.

Quando esco, ho sempre con me un libro perché indipendentemente dal fatto se avrò tempo o meno, è un gesto che mi trasmette pace. Ci sono libri più opportuni in certi periodi piuttosto che in altri e la scelta è sempre attenta e mai casuale. In un tempo come questo caratterizzato dalla solitudine non c’è miglior compagno che Primo Levi, conoscitore esperto dell’esperienza dell’abbandono. Primo Levi è o non è una medicina in questo mio tempo?

Per me un tempio sacro è dove gli alberi hanno smesso di essere alberi e sono divenuti pagine. Una libreria o una biblioteca è sempre la mia seconda casa.

Per me un libro è uno spazio fecondo dove gli spiriti parlano e gli uomini divengono immortali, dove le creature che nascono dalla mano dello scrittore sono creazioni che lo rendono eterno. Di un libro non c’è parola che sia gettata al caso, che non riveli qualcosa di chi scrive. Come posso non chiamare amico chi mi si dona senza riserve o non essere grato a questi uomini che mi tengono compagnia?

Vivere così è forse meno reale che vivere come consueto?

Lo è di certo, ma che posso farci se il mio mondo è fatto di uomini che disprezzano, di qualcuno che ignora e di pochi che amano? Nel mio mondo pochi amici hanno carne e ossa, i più sono pagine che un tempo furono uomini.

Se dalla società vuoi davvero essere avido e portarti via tutto allora raccogli molti fogli e tante penne e chiediti come sia “dipingere con le parole”.

“Dipingere con le parole” non è altro che realizzare un quadro composto di lettere, dove queste sono coloro che si sostituiscono alle immagini.

Se hai una visione pessimistica e quindi pensi che non ci siano soluzioni, puoi optare per il dipingere con le parole.

Lasciarsi affogare dalla vita è finire come quei rami che scorrono sui fiumi; affogare “dipingendo” è procedere per una strada poco frequentata.

Improvvisarsi pittore è cambiare la prospettiva da cui si osserva la vita; è osservare invece che guardare, ascoltare piuttosto che sentire, descrivere piuttosto che scrivere.

Dipingere è possibilità concreta, è alternativa, è descrivere gli avvenimenti e viverli piuttosto che subirli.

Dipingere è convincersi che il pennello è la propria penna, la tela i propri vissuti, è scegliere di pennellare più veloce o più lento, con profondità o accennando. Il mio pennello ha una sola punta e tante sfumature quante sono le parole che conosco, è chi ha il potere di ritrarre il dramma con tutti i suoi dolori e le immancabili gioie.

Se il pennello corre sui fogli, mi sento uno scrittore, il sentirmi tale mi lusinga e poco importa la distanza che vige tra me e chi sa scrivere davvero, a dividerci c’è solo il talento che è dono divino ricevuto per grazia.

Quando con la penna imprimo il bianco della carta, faccio un gesto che ha portato certuni a fare capolavori e desiderando la loro vicinanza avverto che un legame ci unisce e diviene indissolubile.

È gradevole quel che si prova terminando di scrivere, la stanchezza di una mente che termina di elaborare è simile a quello di una donna una volta terminato il parto.

La corruzione cui è soggetta la terra ha obbligato certuni a procurarsi un paio d’ali e fuggire lontano, sopra i cieli, perché scrivere è raggiungere una valle ricolma di pace, è il riposo dopo la fatica, è magia che trasforma la realtà in fiaba. Scrittore è chi si divincola tra normalità e follia, chi è annoverato talvolta tra i geni altri tra i matti. Un foglio è un essere prescelto e insieme al cane uno dei migliori amici dell’uomo. Poche altre attività sono paragonabili allo scrivere e farlo è permettere a un’anima di trovare sfogo e lasciare il fiume in piena sfociare nel mare.

Il profumo dell’inchiostro è un punto di congiunzione tra il mondo che ci si presenta e la propria anima, tra quello che si vive e quello che si sogna. Vivere così è vogare tra gli avvenimenti piuttosto che farsi sommergere da loro.

Pensate infine a un qualsiasi gabbiano. Lui ha le ali e noi un cervello. Chi ha le ali è libero, chi ha il cervello è in gabbia e dalla sua gabbia occupa il tempo a progettare gabbie per chi ancora non le ha.

“Se solo o gabbiano potessi barattare con te, cambierei la mia intelligenza per le tue ali, ti lascerei la terra e volerei lontano nei cieli”.

IV

Un cammino di solitudine, perché nessuno ha desiderio di tornare alla vita arcaica, quella vita dove i nostri progenitori hanno vissuto e si sono procreati. Un istinto atavico, d’inspiegabile potenza che mi costringe a stare al freddo, ad abbattere alberi, a spaccare legna, a coltivare ortaggi, a interagire con gli animali ma soprattutto, vivere a distanza da quelle che voi chiamiate “confortevoli case”.

Il ritorno ai progenitori è impossibile ma ci si può avvicinare.

Quali sono le attività che scandiscono la mia giornata? Attività semplici e a moto circolare, studio e scrittura, poi ancora studio. Contemplazione della natura, lettura e ancora scrittura. Tutto questo interrotto da momenti di lettura e meditazione del Vangelo, linfa per la parte più intima del mio essere e per quello di ogni uomo che ha sete del divino.

L’attività intellettuale è alternata alla contemplazione della natura selvatica, attività che permette il proliferare di nuove intuizioni e riflessioni e dunque altre pagine da riempire, altre conclusioni da trarre.

Le giornate così vissute sono troppo corte, non si è mai stanchi e si vorrebbe sempre avere più tempo per dedicarsi con cura a ciò che si ama.

In città era tutto così lungo e le giornate infinite fiaccavano il mio animo fino a farmi montare in collera. Collera contro gli uomini che ho sempre guardato come miei antagonisti, li vedevo ridere, li vedevo orgogliosi della vita che conducevano e non pensavano, che senza volerlo obbligavano me a dover fare come loro. Leggevo nei loro volti la distruzione, il desiderio di distruggere tutto quanto mettesse in discussione le loro vite. Li ho odiati e ho desiderato fargli del male, ora li ignoro e un giorno, se attraverso un cammino spirituale dovessi farcela, mi piacerebbe perdonarli e forse chissà, poterli amare.

Qualcuno ha forse avuto idea di scambiarmi per un ecologista o uno che combatte per salvare il pianeta? Per me il pianeta è già seppellito e non lascerete alle prossime generazioni che cenere. Se fossi un ecologista, la soluzione che proporrei sarebbe di tornare a vivere nelle capanne e di portarci con noi solo un mucchio di libri. Ma chi di voi pattuirebbe la salvezza di un albero con la propria automobile o per la propria abitazione? Volete salvare il mondo con la raccolta differenziata? Che cosa volete ottenere se più di sette miliardi di persone non possono fare a meno delle comodità, di quelle comodità che ognuno di voi desidera?

No, io sono solo un profeta in un tempo in cui la parola profeta equivale a essere clown. Anzi no, sono un filosofo, esprimo idee e cerco di attuarle nella pratica. Sono un burlone, un folle che preferisce passare le sue giornate in un bosco piuttosto che stare seduto in ufficio o a lavorare in una fabbrica.

Quattro, forse cinque attività, così si gioca la mia esistenza, un esercizio di perseveranza che non comporta alcuna fatica perché sembra essere ciò per cui sono stato destinato fin dalla nascita e di cui ho preso coscienza un passo alla volta fin dall’età della ragione.

Non vedete anche voi un’unione armonica tra amore della terra e cultura? Non sembra un connubio antico ma anche nuovo perché perduto?

Non sono ancora uscito dalla gabbia ma anelo alla libertà e il primo sintomo come quando si manifesta una malattia e subentrano i brividi è questo scritto, segno tangibile che le parole scritte hanno intenzione di divenire realtà. Anelo alla libertà, a costo della fuga o a costo della morte. Non lascio soldi, non lascio patrimoni, non lascio nessuno, solo i miei genitori. Lascio infine lo scritto, il mio testamento, le mie parole, la mia verità che potrete tranquillamente ignorare come avete ignorato me per tutti questi anni. Ma cosa conta? Per me conta come muoio non come vivo, perché mi potete obbligare a vivere come voi ma non a morire come voi. Morirò sulla nuda terra e mai in una delle vostre città.

Ora vi racconto dell’istinto atavico e dell’amore per la terra, per la natura, per gli animali e per ogni essere creato e nato dalle mani di Dio. Ci sono due diverse vie per amare il creato e queste sono l’agricoltura e la contemplazione immersiva nella natura selvaggia. La prima è imperfetta la seconda può essere di gran lunga la più proficua. Perché mi azzardo a sostenere una tale tesi? È semplice, la mia esperienza personale.

L’agricoltura per come la intendo io è utopia e forse un sogno irrealizzabile. Molte volte ho lavorato la terra e per un motivo o per un altro ho dovuto interrompere il mio lavoro perché l’uomo è intervenuto interponendosi tra me e quello che amavo. Non ha prezzo vedere un germoglio fuoriuscire dalla terra lavorata come non ha prezzo stare accanto ad animali che ti tengono compagnia e ti rendono la vita un vero incanto. Eppure, tutto questo ha un prezzo e questo prezzo è sempre scendere a patti con l’uomo che è avido della terra che produce, che vuole soldi da chi come me non li ha e che considera suo cosa in realtà Dio ha donato gratuitamente. Hanno rivendicato terre che non gli appartenevano e hanno considerato proprietà privata luoghi che alla loro nascita non appartenevano a nessuno. In questo nostro tempo ogni pezzo di terra appartiene a qualcuno e tutti vogliono soldi, sempre e solo soldi. Per cosa? Per vedere quel germoglio crescere e per tenere con sé qualche animale che è la gioia della mia vita. Fin da quando la storia narra la vita di questo mondo, è testimoniato che chi ha lavorato la terra è sempre stato costretto a vivere da povero, emarginato e da schiavo. C’è sempre stato un padrone e qualcuno che lavorasse per lui. Non esiste quel giardino dell’Eden datoci da Dio perché la terra sia un immenso giardino dove l’uomo possa vivere felice. L’uomo ha corrotto da sempre questo disegno e se qui da noi in Italia è meno percettibile, in altre parti del mondo il contrasto è molto più forte. Ho lavorato la terra in Italia ed è andata male, ma ho lavorato la terra in Tanzania ed è andata anche peggio. Non vi racconterò cosa è accaduto in Italia perché non vi farebbe impressione, vi racconto invece cosa ho annotato in Tanzania, a testimonianza che quel che poteva essere un sogno e un paradiso è divenuto un vero inferno. Queste righe le scrivo con maggior dolore di quanto abbia scritto le altre perché devo riportare la mente a ricordi che avrei voluto accantonare e non per la gravità di quanto visto ma perché amavo quella terra. Ho lasciato amici che nella loro emarginazione sono diventati i miei fratelli e in un periodo nemmeno troppo lungo avevamo deciso inconsciamente di passare insieme il resto dei nostri giorni, gli uni accanto agli altri. Ma qui funziona tutto per documenti e burocrazia e a nessuno interessa se le relazioni umane sono interrotte da stupidi fogli che vanno firmati e timbrati.

Vi racconto allora la storia di un paradiso che diviene inferno per sostenere la tesi che la vita nella natura selvatica è più perfetta di quella agricola, perché quella agricola ha ancora molto da spartire con la società e perché vigono leggi perverse che distruggono il lavoro più faticoso e più affascinante che Dio abbia permesso all’uomo di svolgere. Nonostante spero ancora di possedere un mio piccolo campo con i miei animali e le mie piantine racconto questa storia perché ho scelto di tralasciare questa via per darmi totalmente – almeno per un periodo – alla vita selvatica così da nascondermi come i lupi, i cani selvatici, i cinghiali, le volpi. Continueremo a vivere così almeno fino a quando non ci catturerete tutti e ci porterete nelle vostre riserve.

Innamorato della creazione di Dio, amo gli animali, la semplicità di vita e la natura più di ogni altra cosa, è tutto scritto nel mio istinto atavico. Questa descrizione è l’annotazione di appunti di un desiderio che si è rivelato utopia e dove il male ha prevalso sul bene. Quanto scritto è lo sfogo di chi impotente ha assistito a episodi che definiscono come i singoli poco possono, come il potere decida e come un potenziale paradiso può divenire inferno.

Questa di cui parlo, non è che uno scorcio dell’Africa dimenticata, storia di uomini e donne che considero fratelli, madri e padri, figli, perché pochi vogliono avere notizie di loro.

Ho assaporato la condizione, la sensazione, il significato di essere abbandonati da Dio e dai nostri simili.

La fattoria era un luogo desolato e i residenti si reputavano maledetti, scartati, angustiati a causa della lontananza dalle comodità e dalle “cose che contano”. Era uno spazio sacro che da paradiso era divenuto inferno. Era una terra deturpata dal peccato, dall’infamia, nicchia in cui il grido dell’uomo si confondeva con quello dell’animale, uomini che da maestosi erano divenuti turpi. Da laggiù il panorama era insolito, indesiderato quanto inusuale, si scendeva per non risalire, perché risalire, era solo dei privilegiati.

Il paradiso diviene inferno quando il più forte non avrebbe motivo per prendersela con il più debole e il più debole, frustrato, sente la necessità di sottomettere alcuni più in basso di lui, gli animali.

I sottomessi appartenevano alla categoria infima della razza umana, di conseguenza chi è ultimo non può che trovare sfogo con gli animali, coloro che in realtà sono l’unica salvezza.

Vidi vacche maltrattate, animali che non davano più latte e l’uomo che se non può spremere latte spera almeno nel sangue. Un vicolo di mostruosità, calci, colpi e l’esasperazione che inserisce altri nel proprio circuito perché ad affondare da soli non ci si tiene proprio. E il rotolare nei propri escrementi e le zampe deboli che si lasciano andare, le ginocchia che battono sul cemento e il rialzarsi difficoltoso che termina in un affannoso ricercare l’angolo cupo dove si crede di poter scomparire.

Abbruttimento aveva chiamato abbruttimento e atti malefici richiamato vendette, in quella povertà la bestialità aveva preso il sopravvento, bestialità che nulla ha a che fare con quella che appartiene all’animale. Guardai più in profondità e in quegli uomini lessi la sofferenza e lo sfruttamento, lavoravano per nutrirsi. In pochi istanti raccolsi pensieri che non credetti mettere insieme in così poco tempo.

Di sacro in quel luogo c’era solo cosa era ancora selvatico, attorno a me piccoli uccellini rossi, di un rosso fosforescente posati sulle cime di alti girasoli. Assorto, non mi accorsi che accarezzavo un grosso cane che lambiva le mie dita e implorava carezze.

Tutto era perfetto, i colori lo erano, le creature lo erano, perfino gli odori e l’infinito innanzi a me lo era, ogni cosa aveva il suo posto, la sua funzione tranne l’uomo che invece che custodire distruggeva.

Mancava la volontà, la coscienza, l’amore. A tutto questo si preferiva il potere e il tintinnare delle monete.

L’uomo non era disposto a cogliere il paradiso e preferiva l’inferno e quel paradiso non fu mai tale e mai si avvicinò a quello per cui era stato creato.

L’africa, gli africani sono la terra e il popolo che amo, mi mancano immensamente e quando qui in Italia posso stare tra loro cerco di non pensare a quella terra meravigliosa che se manca a me non posso immaginare a loro.

L’uomo bianco è causa dei mali dell’uomo nero e l’uomo nero non è che una vittima corrotta di un mondo che da secoli l’ha destinato all’abisso.

In Italia l’agricoltura non è brutale ma è diversamente crudele, il suo obiettivo è il denaro e non l’amore, chi la volesse praticare per amore non troverebbe spazio, senza denaro un campo non si compra.

L’agricoltura a oggi è per le grandi aziende e per i pensionati, per chi ama i nuovi germogli e gli animali non resta che la natura, ma quella selvatica. Lì si parla di un altro mondo, mondo parallelo. Mondo che presto mi accoglierà nel suo grembo.

Ho provato ad affacciarmi al mercato della compravendita e me ne sono fuggito, un desiderio compulsivo di strappare all’acquirente più soldi possibili e di vendere terre che si reputano proprie quando in realtà il proprietario è solo Dio. Per me agricoltura è lavoro per il gusto di lavorare, per amore degli animali e della terra, delle piantine che crescono, del nutrirmi di quello che produco. Mi nutrirei di cosa mi concedono gli animali e la terra ma poi? Molti mi dicono che il mio è un ideale irrealizzabile e che bisogna necessariamente avere dietro una pensione oppure entrare nel mondo del mercato. Insomma, non sembra altro che una trappola della società affinché io torni per una via diversa a lei, un’altra ingannevole via di quel labirinto che ti conduce a ingabbiarti nuovamente. E non è questo che desidero. Agricoltura per me è restare fermi ai tempi del badile, della zappa, del rastrello, del machete, della roncola, della sega, non concepisco nulla di meccanico perché il contatto con la mia terra deve essere veritiero, la voglio conoscere, voglio tornare ai tempi quando la terra concedeva ma perché questo accadesse, la dovevi supplicare, voglio sentire il dolore delle mani e delle braccia e strappare a lei i segreti che cela. Le mie patate, l’aglio, lo scalogno, i fagioli, le fave me le voglio guadagnare con i metodi e la fatica antica. Oggi ci sono le macchine e tutto è commercio, è un calcolo di quanto spendo per poi presumere quanto guadagno. Agricoltura è avidità. Agricoltura oggi è solo per le aziende e non per i filosofi, i pensatori, gli eremiti.

Ritengo che ci sia uno scetticismo – a mio parere fondato – tra le persone di una certa età nei confronti delle giovani generazioni, ai loro occhi ritenute rammollite e incapaci di sacrifici. La mia visione è simile alla loro seppure tengo gli occhi aperti per cogliere qualche eccezione. Effettivamente la domanda può sorgere spontanea: “Perché mai un ragazzo nato e cresciuto per trenta anni in città tra comodità e benessere dovrebbe essere in grado di sostenere una vita che già cinquanta anni fa per molti poteva essere impegnativa?

E in seconda battuta: perché avendo queste comodità, dovrebbe mai rinunciarci?

Lo scetticismo può essere fondato ma non crediate di azzeccarci quando nei vostri calcoli includete tutti, ma proprio tutti, ci sono motivazioni di fondo che possono smuovere anche le montagne.

Un ragazzo nato e cresciuto in città può fare questa scelta perché da sempre si è sentito strappato a una condizione che sentiva appartenergli per istinto, e se non l’ha fatto prima, è perché non ha potuto o non ha trovato i mezzi. Ma vi assicuro: ogni qual volta s’imbatteva in qualcosa di selvatico gli sobbalzava il cuore e quando incontrava un artificio umano, gli passava il desiderio di vivere. Le comodità e il benessere le avete create voi e non sono adatte per tutti gli uomini. Non sapete cosa vi perdete a dormire su una lastra di legno guardando le stelle tra i monti nel silenzio misterioso della notte. Non sapete il gusto che ha lavarsi con l’acqua che sgorga dalle rocce piuttosto che fare la doccia calda, il sapore che ha un frutto selvatico invece delle mele plastificate dei vostri supermercati. Per questo e tanti altri motivi un ragazzo può rinunciare. In conclusione io rinuncio perché un istinto primitivo vive dentro di me, Dio me l’ha messo nell’anima e nessuno me lo può strappare. È potuto rimanere assopito perché mi avete anestetizzato, ma ora l’effetto è terminato e mi sto risvegliando.

Rinuncio perché l’istinto primitivo vive dentro di me, è nato con me e morirà con me.

Rispetto il secondo modo di amare la natura, il discorso si fa complesso. Qui parliamo di tralasciare la via agricola e di gettarsi su quella selvaggia e immersiva, la via più perfetta. Qui il discorso si fa complesso perché è un riabituare se stessi, morire e rinascere. Non sappiamo vivere in nessun altro posto che in città, al sicuro e protetti, temiamo la notte, il bosco e i suoi animali. Non si ha ricordo di eremiti che vivevano nelle grotte e addomesticavano addirittura gli animali selvatici?

“Tutte leggende” direte. Le leggende sono quelle che vi raccontate fra voi, cioè che il vostro modo di vivere sia sostenibile per lungo tempo.

Guardo un cane passeggiare al guinzaglio per le vie silenziose di un paesino del nord dell’Italia. Il padrone e la sua creatura sono tranquilli, rasserenati dall’assenza di ostacoli, camminano senza pensieri uno accanto all’altro. Dopo la passeggiata, i due rientrano nella loro confortevole casa e il cane sonnecchia, gli occhi socchiusi che si riaprono vispi se sollecitato da qualcosa che lo attira. Può riposare e mangiare, una vita asettica dove ogni dettaglio è sotto controllo. Un cane del genere vive così per circa otto anni, poi è preso e per esperimento lasciato su di un monte, circondato da boschi dall’estensione rilevante.

Che cosa fa il cane? Non c’è più il guinzaglio, non c’è il territorio asettico e privo d’incognite, non c’è nemmeno il cibo pronto e nemmeno il padrone a proteggerlo. Invece che una vastità di cemento c’è una sconfinata area boschiva con monti che reputa impervi. Il cane non riesce più a sonnecchiare tranquillo e nemmeno a riposare, forse inizia tremare, disorientato abbaia e non sa dove dirigersi per trovare protezione. In poche parole si sente perso.

Ora prendete un uomo che analogamente al cane ha vissuto alle sue stesse condizioni. Che cosa farà quest’uomo? Dopo trenta anni di addomesticamento sarà anch’esso lasciato alla stessa situazione. Che cosa proverà? Proverà paura. Paura per cosa? Paura per cosa è descritto nel libro della Genesi. Paura per ciò che Dio creò e considerò molto buono e giusto, per quel che una volta creato sentì soddisfazione. Ora, sia l’uomo sia il cane temono cosa Dio aveva creato perfetto e questo perché? Perché gli uomini – altrove – si sono costruiti un mondo che si è allontanato da tutto questo e reputano queste meraviglie temibili, paurose, terribili, luoghi degni di essere tenuti a distanza e al massimo da visitare durante la giornata se a confortarli c’è il sole.

Se l’uomo teme tutto questo, ne starà alla larga, ma se il suo istinto preme perché primordialmente sente desiderio di essere lì che accadrà? Un combattimento, una lotta in cui non si sa se a predominare sarà la paura o il coraggio, l’addomesticamento o la forza di togliersi di dosso queste catene. A quel punto subentrerà la paura, quella vera.

Mi voglio staccare dalla società e allora lo devo fare non solo per locazione ma anche per mentalità. Voi temete gli animali selvatici, io devo imparare ad amarli, voi temete la notte e la solitudine, io devo lodarle.

Si deve vedere la differenza tra chi si è dissociato dalla società e chi la ama o si è rassegnato a viverci dentro. Vado a nascondermi tra i monti, tra gli animali selvatici e la vegetazione incolta. Saranno accoglienti lì, più che se dovessi entrare per errore in una vostra proprietà privata. Chi mi chiederà denaro per stare con loro?

Mi avete addomesticato, la natura ora mi fa paura, è nemica. E questo è normale? Vado a scardinare questa mentalità. Ma come scardinare trenta anni di tutto questo?

Per ritrovare la pace posso ricordare mio zio Turi e spendere due righe per lui. Era amante di quei monti, dove ho deciso di andare. Era incapace di spiegare agli altri e a se stesso cosa lo attirasse di quei luoghi impervi, ma io l’ho intuito. L’istinto lo attirava e come un animale non si poteva domare, fiutava e andava. Chi l’ha mai potuto capire, chi trattenere? A volte era deriso, altre rimproverato, altre ancora ignorato. Io, solo negli ultimi anni avevo iniziato a capirci qualcosa e pure se il suo dialetto stretto e il fermare a metà le frasi mi metteva difficoltà io, interpretavo dai gesti, dalla foga, dalle espressioni del viso. La differenza tra me e lui? Io ho la cultura e questa mi permette di esprimere e scrivere cosa provo e di chiarire a me stesso e agli altri per cosa lotto. Lui no, lui era puro istinto, istinto grezzo mai affinato, un pezzo di marmo che poteva divenire scultura, ma che grezzo marmo è rimasto.

Cosa ci accomuna? L’istinto. È lo stesso, il mio, però è elaborato, arricchito, ha fondamenta e obiettivi. Per lui istinto per la natura era inizio, mezzo e fine. Per me sono l’inizio e il mezzo ma non il fine, perché il fine è ben altro, ed è qui che si radica l’ideale! Io riparto da dove si è fermato lui perché interpreto la vita come fosse una staffetta. Mi ha passato il testimone ed io corro, non mi fermo, vado, dove lui non è potuto andare.

Ma il movimento non è tanto fisico quanto intellettuale, dono la parola ai suoi balbettii e consegno alla sua esistenza un significato profondo, di una profondità che non potete credere. Se capirete me avrete capito lui e se capirete lui, avrete capito qualcosa di me.

Cosa non ci accomuna: lui era forgiato di un altro materiale, amava quei luoghi e si sentiva a suo agio, io li amo ma li temo perché non li conosco.

V

Cos’è la paura? La paura è assenza di conoscenza, è un’emozione primitiva che riesce a farti tremare e scuotere il corpo intero, è in grado di paralizzare il pensiero e il corpo e impedirti di fare qualsiasi azione nella direzione verso la quale lei voga contrariamente.

La paura è il vero problema dell’uomo.

Non conosco bene la storia ma ritengo non ci siano state epoche luminose, ci sono stati uomini rari e illuminati in epoche buie. Questo è tutto. Non avrei perciò preferito vivere in questa o quell’epoca ma piuttosto aver avuto occasione di imbattermi in un certo individuo o in un altro. Anche oggi come allora questi individui popolano il pianeta, ma sono pochi e silenziosi e incontrarli è come scovare diamanti.

Bisogna restare desti perché portano comuni vestiti, si camuffano, sono umili e non immediatamente riconoscibili. Solitamente si elogiano a eroi alla morte ma il merito è capirne il valore mentre sono in vita.

Coloro di cui parlo, sono gente che la paura l’ha incontrata e l’ha spazzata via. Non esistono grandi personaggi che si siano fatti soggiogare da questa. Chi è rimasto sotto il suo influsso è rimasto soggetto comune. La paura è uno spartiacque tra la teoria e la pratica, tra le belle idee e la loro concretizzazione. Dire belle parole e non dargli compimento è come svuotare ognuna di esse del loro significato, perdono valore.

La paura è di segno opposto alla radicalità, la paura stessa teme la radicalità e teme chi attua questo modo di vivere. I santi hanno annientato la paura e hanno vissuto con radicalità.

A questo proposito sento di esprimere il mio pensiero su un tema a me caro, anch’esso centrale nella mia vita.

Intorno ai ventuno anni la mia anima sentì il forte desiderio di intraprendere una vita spirituale e questo fu essenzialmente per una ragione: una questione esistenziale. Cercavo risposte.

La chiesa poteva essere una valida alternativa? Nel passato molti avevano escluso quest’opportunità, altri invece trovato in essa quanto cercavano.

Senza dilungarmi centrerò il punto che ha rischiato di sancire la separazione tra me e la Chiesa dopo nove anni di relazione.

Della Bibbia e delle agiografie riguardanti le vite di uomini di spirito, rimasi rapito dalla radicalità delle loro esistenze e delle loro massime. Cosa mi ha affascinato di questo stile di vita se non il desiderio di rendere concreto il passaggio dalle parole ai fatti?

Ho dunque perseverato per diversi anni in vari istituti dovendo costatare alla fine che tutti avevano una mancanza, un denominatore comune: l’assenza di radicalità.

La chiesa teme la radicalità e teme coloro che la amano e la vogliono intraprendere. Ma togliere la radicalità dalla vita spirituale non è come sradicare il cuore da un uomo o far schierare le squadre in campo e chiedergli di iniziare a giocare senza pallone? Quella radicalità aveva rapito il mio cuore e la sua assenza, spento il mio spirito. Senza di lei non vidi più profeti che ispiravano nuovi profeti ma solo il libro sacro trasformato in romanzo e uomini che si dilungano e crogiolano in sterili ragionamenti.

“Il percorso dell’acqua che parte dalla sorgente può essere contaminato, ma non è la sorgente a essere inquinata”. Deve essere stata una frase del genere ad aver fatto perseverare il poverello di Assisi e la sua assenza ad aver fatto allontanare Lutero.

VI

“Nessuno può essere un saggio e giusto riformatore della vita umana, se non vivendo quella che dovremmo chiamare povertà volontaria… Oggigiorno ci sono studiosi di filosofia, non filosofi. E questo studio è ammirevole soltanto perché una volta era ammirevole il vivere. Per essere filosofi non basta avere pensieri raffinati, né fondare una scuola, ma occorre amare la saggezza al punto di vivere secondo le sue leggi”.

Spalanco le porte alla mia proposta appoggiandomi a una frase di uno dei miei più cari amici: Henry David Thoreau. Non potevo non citarlo e sarebbe stato scorretto affermare quanto detto da lui solo rivoltando e cambiando l’ordine delle parole. Le sue sono così perfette, potenti, penetranti e sintetiche che non sento la necessità di commentarle. È solo così, e questo è meraviglioso.

Come un terreno idoneo e ben concimato fa crescere bene la pianta, una condizione ben scelta è cosa ci vuole affinché il tutto proceda verso il massimo grado. La prima cosa da considerare è allora qual è questo terreno fertile perché l’ideale possa prendere vita e crescere.

Le condizioni non sono fisse ma flessibili, è importante che permettano l’elevazione della mente come dello spirito, soprattutto dello spirito. Le condizioni possono quindi assumere infinite sfumature e queste sono parte di due contenitori, entrambi gratuiti e accessibili a chiunque. La miseria e la natura selvatica.

Le due condizioni hanno scopi differenti: una è la sorgente da cui si attinge, l’altra dove si elabora.

In assenza di una è bene sostare nell’altra e viceversa, fin quando la mancante non torni disponibile.

“La vita, la sventura, l’isolamento, l’abbandono, la povertà, sono campi di battaglia che hanno i loro eroi, eroi oscuri, talvolta più grandi degli eroi famosi”, così scriveva Hugo nei “Miserabili”.

Un territorio di emarginazione e sofferenza è la sorgente, dove si attinge affinché il pensiero sia elaborabile. Si elabora solo ciò che s’interiorizza. La miseria ha mille gradazioni e tra queste si sceglie la più oscura perché, dove c’è oscurità in realtà, la luce è abbagliante. Questa luce che viene colta è percepibile solo con il cuore, mai con gli occhi.

Sì, perché la desolazione umana è un miscuglio inestricabile di storie, linguaggi, sensibilità rarissime. Che cosa imparo da un uomo che gode? Poco. Che cosa imparo dal pianto, dalla fame, dalla malattia? Potenzialmente tutto. Questa mia gente sono eroi e insegnanti ma anche libri viventi. I loro racconti linfa.

Studio per diventare educatore? Non è una laurea, è un passaporto per quei territori dove pensano che io andrò a insegnare ma che nel segreto so che vado ad apprendere.

La natura deve essere selvatica e più è selvatica più l’obiettivo sarà raggiungibile. Lo scopo di questa è appunto l’elaborazione del pensiero. La natura è selvatica nelle tonalità più varie e questo significa che se ho un bosco è bene, se ho una foresta, è meglio ma se ho il deserto, sono felice.

La mia esistenza allora si destreggia tra baracche e capanne, tra miseria e natura, è un correre da una parte all’altra senza mai sostare nella mediocrità, perché lì non ci si prepara e si vive solo il presente, dimenticando il passato e ignorando il futuro. Non ci può essere riposo perché arrestarsi, è fare arenare il pensiero, è distogliere la mente, è fiaccare lo spirito.

Cercare la miseria come un affamato, ricercare la natura come un primitivo.

Socializzazione, solitudine, condivisione. Nella socializzazione attingo, nella solitudine contemplo, nella condivisione evolvo.

Socializzare e stare soli è facile, condividere è difficile.

I cercatori sono rari, distanti, sparsi, chiusi nei propri mondi, incerti se essere i soli oppure no. Ma noi ci siamo e dobbiamo solo trovarci. Ma mentre ci troviamo che fare? Ci prepariamo. E allora chi ama scrivere lo faccia, chi sa raccontare non si astenga, chi dipinge non si fermi e chi suona non smetta. Che le nostre peculiarità siano espresse, scriviamo, raccontiamo, dipingiamo, suoniamo fino al giorno che ci ritroveremo e potremo esprimere insieme la verità.

L’ideale ha perciò tre gradini: le domande esistenziali il primo, la cultura e l’esperienza il secondo, la spiritualità il terzo. Alle domande mi accingo con la ragione, con la ragione esamino la vita, con la ragione e la vita sostengo la spiritualità e tramite la spiritualità, imploro l’incontro con Dio. E Dio? Dio lo imploro di rispondere alle mie domande.

Se per elevare la mente mi nutro del pensiero di ogni scrittore e del vissuto di ogni uomo per lo spirito il mio accesso prescelto è la Bibbia. Scelgo lei sola perché non mi basterebbe una vita per comprenderla e cento per viverla. La perfezione è meta di pochi e quei pochi sono la mia stella polare.

Le vie per la verità sono molteplici e il mio ideale tocca il sublime qualora il percorso da solitario si facesse comunitario. Visioni diverse, cammini differenti che tendono tutti alla stessa meta, la verità. Essere soli è necessità ma essere insieme è sogno. La diversità non è svantaggio ma arricchimento reciproco.

Obietterete: “Ideale affascinante, scritto bene, ma poi ?” E poi vi risponderei che Giovanni Battista si sarebbe cibato di locuste e miele selvatico anche ai nostri giorni perché saturare lo spirito è meglio che riempire uno stomaco e questo valeva ieri come vale oggi.

Questo ideale è anacronistico?È una filosofia di vita che non s’incarna in un’epoca perché è dalla nascita del mondo che si cerca il senso, l’essenziale, Dio. E se oggi pochi lo fanno, questo non significa non si possa più fare.

Istinto atavico indica l’istinto primitivo che fin dall’origine del mondo s’incarna nel bisogno insostituibile di vivere la natura, sostenere i più deboli, ricercare Dio.

La filosofia qui proposta attraversa, supera e demolisce il tempo, non mi potete collocare in alcuna categoria perché io sono fuori dal tempo e anelo a ciò che è valido da sempre. La vita di oggi la potete confrontare con quella di ieri ma ciò di cui parlo io non potete confrontarlo perché valeva ieri e vale oggi. La verità è immutabile e avere sete di essa è qualcosa che supera ogni catalogazione umana.

Alla fine non siamo altro che creature che inseguono il creatore, forestieri in una cerca di una casa, orfani che non si arrendono di rimanere tali.

Se qualcuno leggerà queste pagine, chiedo di concentrarsi sul messaggio e mai di pensare al messaggero, perché come mi disse un fratello, quel che conta è il pensiero e non chi l’ha pensato. Nel caso questo accadesse come per incanto, il messaggio si svuoterebbe e non resterebbero che lettere.

Autore: niaguaita

Sociologa e scrittrice

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